20 Giugno 2022

Autore:  Armando Cavaliere

Per mobbing (dall’inglese “to mob”, verbo che significa “turbare, molestare”), termine ormai da diverso tempo entrato nel linguaggio comune oltre che giuridico, si intende – generalmente – quella condotta sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro, garantite dall’art. 2087 c.c. In base poi ai soggetti coinvolti, alla loro posizione nella gerarchia dell’azienda o dell’ufficio ovvero al rapporto intercorrente tra gli stessi, è possibile individuare diverse tipologie di mobbing (anche dopo specificate).

Ora, il presente contributo muove dalla recentissima Sentenza del 18.01.2022 – depositata in data 05.04.2022 – n. 12827 della Sez. V della Corte di cassazione penale.

Detto provvedimento conferma la Sentenza impugnata della Corte di appello di Salerno la quale riformava quella del precedente Tribunale ma che – per quanto più da vicino qui ci interessa – confermava la sin dall’inizio riconosciuta responsabilità penale del ricorrente per il reato di atti persecutori, aggravato dalla circostanza di cui all’art. 61, n. 11, c.p.

In particolare veniva contestato all’imputato di avere, quale presidente di una società di servizi e quindi titolare di una posizione di supremazia nei confronti delle persone offese, dipendenti della stessa società, tramite reiterate minacce, anche di licenziamento, e denigratorie, nonché attraverso il ripetuto recapito di ingiustificate e pretestuose contestazioni di addebito disciplinare, ingenerato nelle persone offese un duraturo e perdurante stato di ansia e di paura così da costringerle ad alterare le loro abitudini di vita.

Ora, la difesa dell’imputato, tra l’altro, sembrava tentare di distinguere il fenomeno dello stalking da quello di mobbing. Sosteneva, quindi, che il mobbing è concetto non del tutto sovrapponibile al delitto di atti persecutori, che richiede comportamenti fortemente invasivi della sfera privata e che, inoltre, i due fenomeni hanno finalità antitetiche poiché lo stalker mira ad instaurare un rapporto con la vittima, mentre il mobbing è finalizzato alla espulsione della vittima dal contesto lavorativo.

A questo punto, i Giudici di piazza Cavour evidenziano a) come anche nel caso di stalking “occupazionale” per la sussistenza del delitto ex art. 612 bis c.p., è sufficiente il dolo generico essendo richiesta la mera volontà di attuare reiterate condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e, confermando precedente giurisprudenza, b) che “integra il delitto di atti persecutori la condotta di mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell’esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell’ambiente di lavoro – che ben possono essere rappresentati dall’abuso del potere disciplinare culminante in licenziamenti ritorsivi – tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, così realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall’art. 612 bis c.p.

Orbene, pur tenendo presente la natura comune del reato di cui si discute, l’orientamento espresso anche in questa Sentenza si presta – a parere di chi scrive – a più ordini di critiche ed apre alla possibilità di considerazioni in ordine alla rilevanza e qualificazione penale del mobbing.

Innanzitutto, la responsabilità penale dell’imputato viene così a fondarsi non su una specifica norma bensì su una incriminazione di matrice giurisprudenziale, in violazione al principio di separazione dei poteri oltre che di quello cardine di legalità e di quelli parimenti importanti che ne costituiscono corollario: di tassatività e determinatezza. Ne deriva, ancora e per ragioni intuitive, inosservanza della previsione di cui all’art. 14 disp. gen. la quale stabilisce il divieto di analogia (in malam partem) delle leggi penali.

È auspicabile, quindi, un intervento del Legislatore italiano come quello francese che ha espressamente previsto il reato di mobbing all’interno del proprio Code pénal dove, all’article 222-33-2, ha inteso tutelare espressamente la capacità lavorativa.

Insomma, un’applicazione “a prescindere dal contesto” della norma incriminatrice non appare, in verità, pienamente condivisibile.

Considerazioni diverse, conclusive verso una meno discussa applicazione dell’art. 612 bis c.p., possono valere per i casi di mobbing orizzontale[1] (dunque tra colleghi) ovvero verticale ascendente (realizzato dal lavoratore nei confronti del suo superiore) ove non sussiste un rapporto di sovraordinazione o autorità tra soggetto agente e persona offesa; ciò anche per la clausola di riserva o sussidiarietà prevista dallo stesso art. 612 bis c.p. oltre che per la mancata previsione di un contesto applicativo da parte di tale disposizione.

A ben vedere, restando nell’alveo del mobbing verticale discendente, pare maggiormente condivisibile la giurisprudenza (portata avanti soprattutto dalla Sez. VI della Suprema Corte) che, ricorrendone determinati requisiti – questa volta opportunamente previsti dalla norma incriminatrice oltre che ben enucleati dalla giurisprudenza ormai granitica –, sussume questo fenomeno al delitto di cui all’art. 572 c.p. qualora il rapporto tra datore di lavoro e dipendente assuma natura para-familiare, quindi caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. La giurisprudenza ha escluso, ad es., la configurabilità del reato in casi di relazioni tra dirigente e dipendente di un’azienda di grandi dimensioni, sindaco e dipendente comunale, capo officina e meccanico, capo squadra e operaio.

Appare proprio, poi, potersi scongiurare anche la segnalata (da più parti) diseguaglianza di trattamento sia tra datori di lavoro, sia da lavoratori: secondo alcuni finirebbero punibili le piccole o piccolissime ma non le grandi aziende (ad es. multinazionali o un ospedale) nell’ambito delle quali i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati. Infatti, a questa elaborazione, risponde autorevole dottrina, oltre che giurisprudenza anche di merito[2] e di legittimità[3], sia in ragione dell’espresso richiamo al contesto lavorativo dall’art. 572 c.p., sia per la possibilità che le condotte di maltrattamenti (umiliazioni e angherie) commesse al suo interno, integrino la direzione lesiva tutelata dalla fattispecie: la condotta di maltrattamento va individuata avendo esclusivo riguardo al rapporto tra chi esercita l’autorità e chi ad essa è sottoposto.

Ebbene, tale posizione diventa ancora più convincente laddove si consideri che, nell’ambito dei delitti contro l’assistenza familiare, sono ricomprese anche fattispecie la cui portata supera i confini della famiglia: gli artt. 571 e 572 c.p. indicano come soggetto passivo delle rispettive previsioni anche la persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata per l’esercizio di una professione o arte.

Ricordando il brocardo “rubrica lex non est lex”, la rubrica della norma – intitolata oggi “maltrattamenti contro familiari e conviventi”, pur dopo la modifica attuata dalla L. 01.10.2012, n. 172, art. 4, comma 1, lett. d), che ha aggiunto espressamente i conviventi nel novero dei soggetti passivi del reato – non appare, insomma, perfettamente coincidente con l’ambito di operatività ricoperto dalla fattispecie penalmente rilevante che, di più ampia portata, non soltanto incrimina chiunque, fuori dei casi di abuso dei mezzi di correzione o di disciplina (ossia fuori dei casi di cui all’art. 571 c.p.), “maltratta una persona della famiglia o comunque convivente”, ma anche chi maltratta, indipendentemente perciò dal riferimento letterale alla “famiglia”, “una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”.

Da ciò consegue che “il bene giuridico protetto dall’incriminazione non si identifica nella sola protezione della famiglia, in quanto tale, ma nella tutela della personalità e dunque della dignità tanto delle persone inserite in un contesto familiare o di convivenza quanto di quelle sottoposte ad altrui autorità o ad altri affidate per le ragioni indicate nella norma incriminatrice, dovendo tutte queste persone essere protette da atti che minino la loro integrità fisica e/o psichica, vulnerando la loro personalità nel significato più sostanziale”[4].

Dunque, anche in ragione del bene tutelato (seppur omogeneo), l’art. 572 c.p. appare più vicino e maggiormente corrispondente alla fattispecie di mobbing (quantomeno quello di tipo verticale discendente), ove si consideri che la previsione di cui all’art. 612 bis c.p. è posta a tutela della tranquillità individuale e, in relazione all’evento del costringimento della vittima a mutare le proprie abitudini di vita, anche della libera autodeterminazione – da qui si giustifica la collocazione sistematica della nuova norma nella sezione dei beni contro la libertà morale e a ridosso della norma sulla minaccia di cui all’art. 612 il cui bene giuridico è ravvisato proprio nella tranquillità psichica della vittima –, e l’art. 572 c.p. sia posto a tutela sempre della personalità dell’individuo, ma in un contesto inquadrato meno genericamente già dal Legislatore, che comunque richiami “familiarità”.

Inoltre, tutto quanto sopra è sostenuto da una lettura costituzionalmente orientata della disposizione di cui all’art. 572 c.p.: il Codice Rocco patrocinava una concezione “arcaica” della famiglia, essenzialmente intesa, come nucleo elementare, coniugale e parentale, della società, concezione comprensiva dell’interesse dello Stato alla salvaguardia del consorzio familiare in quanto istituto di ordine pubblico.

Una tale concezione deve però essere necessariamente aggiornata soprattutto a seguito del nuovo quadro costituzionale di riferimento che impone di individuare la ratio di tutela del reato ex art. 572 c.p. attraverso il coordinamento sistematico dell’art. 2 Cost. (secondo il quale “la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo e sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità”) con l’art. 29, comma 1, Cost. (in cui si dichiara che “la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”).

In proposito, si è opportunamente osservato che proprio una lettura sistematica delle richiamate norme costituzionali consente di ritenere che il termine “società naturale” debba essere inteso nel senso che la famiglia costituisce una formazione sociale intermedia tra l’individuo e lo Stato, entro la quale si forma e si afferma la persona umana, sia come singolo che come membro di una comunità. In questa prospettiva, la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che la nozione di formazione sociale, nel cui ambito l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, deve intendersi riferita a ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico[5], il che consente anche di ritenere che le formazioni sociali, tra cui la famiglia, non si prestano ad essere “ingessate”, non si riducono cioè ad essere cristallizzate in schemi fissi, ma che esse sono inevitabilmente aperte ai cambiamenti culturali e relativi ai valori della società. È in questa direzione che trova agevole spiegazione la posizione espressa dalla giurisprudenza di legittimità che, prendendo atto dell’emersione di nuove figure di aggregazione sociale e di convivenza, ha legittimamente anticipato la novella del 2012, che ha definitivamente esteso, ex positivo iure, la tutela penale alle persone che, pur senza aver alcun legame parentale o coniugale con il soggetto maltrattante, fossero soltanto conviventi con costui, modellando un concetto penalistico di famiglia per indicare un aggregato in senso ampio, non necessariamente vincolato da stretti rapporti parentali o di sangue e ponendo l’accento sul fatto che elemento qualificante della ratio dell’incriminazione fosse una relazione tra soggetto maltrattante e vittima definibile in termini di “convivenza” all’interno di un regime di vita improntato a rapporti di umana solidarietà o, comunque, di “comunanza di vita”.

Il rischio è quello di considerare para-familiare l’ambiente di lavoro applicando sempre, e per ogni definizione di mobbing, la previsione di cui all’art. 572 c.p.: l’ampliamento ad opera della giurisprudenza del perimetro delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo-familiare ha invero lasciato invariata la collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice nel titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione ovvero sovraordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità para-familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell’art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo di irragionevolezza del sistema. Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para- familiare.

Vero è, allora, che l’art. 572 c.p. ha allargato l’ambito delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello endo-familiare in senso stretto, “però non può ritenersi idoneo il mero contesto di generico, e generale, rapporto di subordinazione/sovraordinazione. Con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre che il soggetto agente versi in una posizione di supremazia, che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile a un rapporto di natura para-familiare (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368). Il presupposto della para-familiarità del rapporto di sovraordinazione si caratterizza, infatti, per la sottoposizione di una persona all’autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità”[6].

In conclusione – immobili le tutele risarcitorie di natura civilistica –, restando fermo che appare quantomeno opportuno un intervento del Legislatore, pure per evitare (ovvero chiarire) se le condotte di strainingbossingbullying, possano anche integrare fattispecie da cui ricavare penale responsabilità, pare potersi definire un quadro come il seguente: l’art. 612 bis c.psi presta ad essere applicato sia ai casi di c.d. mobbing verticale discendente – perpetrato dal datore di lavoro in danno del sottoposto – laddove non si riscontri la natura para-familiare del rapporto lavorativo – quanto ai casi di cd. mobbing orizzontale – realizzato tra colleghi – e di cd. mobbing verticale ascendente – realizzato dal lavoratore nei confronti del suo superiore – e, comunque, nel caso in cui ne ricorrano tutti gli elementi costitutivi (infatti, il delitto di atti persecutori, che ha natura di reato abituale e di danno, è integrato proprio dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso); l’art. 572 c.p. può trovare applicazione nei casi di mobbing discendente con rapporto para-familiare.

[1] Si segnala comunque Cassazione penale, Sez. II, Sent. n. 26957 (ud. 07.07.2020, dep. 28.09.2020).

[2] Cfr. Trib. Milano, Sez. Cassano d’Adda, 14.03.2012, secondo cui il fenomeno del mobbing può integrare il delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi anche in strutture aziendali complesse “nei quali tuttavia il rapporto relazionali si sia sviluppato in un contesto specifico, che valga a dare concretezza ad una significativa relazione intersoggettiva”; analogamente Trib. Milano, sez. V, 30.11.2011.

[3] Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 53416 (ud. 22.10.2014, dep. 22.12.2014).

[4] V. Cassazione penale, Sez. III, Sent. n. 23104 (ud. 26.02.2021, dep. 11.06.2021).

[5] Ex multis, Corte cost., Sent. n. 221 del 18.06.2019.

[6] Cassazione penale, sez. VI, Sent. n. 19268 (ud. 20/04/2022, dep. 16/05/2022).

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Modificato: 21 Marzo 2023