5 Aprile 2022
Autore : Maria Adele Sposato
Cassazione, III 20 aprile 2020, n. 7969
Sempre più di frequente, nel nostro territorio, si verificano incidenti stradali a causa di animali selvatici, soprattutto cinghiali.
Proprio per tale motivo, sul tema, si è formata ampia giurisprudenza.
Ma andiamo con ordine.
I danni causati dagli animali selvatici, in passato, erano considerati danni non indennizzabili, in quanto tutta la fauna selvatica era ritenuta res nullius.
Con la L. 27 dicembre 1977, n. 968 la fauna selvatica è stata dichiarata patrimonio indisponibile dello Stato, tutelata nell’interesse della comunità nazionale, e le relative funzioni normative e amministrative sono state assegnate alle Regioni.
Successivamente, la L. 11 febbraio 1992, n. 157 ha specificato che la predetta tutela riguarda “le specie di mammiferi e di uccelli dei quali esistono popolazioni viventi stabilmente o temporaneamente in stato di naturale libertà nel territorio nazionale”, con determinate eccezioni ben specificate.
A seguito dell’emanazione di dette norme, la giurisprudenza prevalente ha sempre sostenuto la natura aquiliana della responsabilità in esame, con conseguente onere, a carico del danneggiato, di provare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito extracontrattuale previsto all’art. 2043 c.c. Secondo tali orientamenti, infatti, il danno cagionato dalla fauna selvatica è risarcibile solo alla stregua dei principi generali ex art. 2043 c.c., che richiedono l’individuazione di un concreto comportamento colposo ascrivibile all’ente pubblico (ad es. Cass., Sez. 3, sentenza n. 8788/91; Cass., Sez. 3, sentenza 1638/2000; Cass., Sez. 3, sentenza n. 10008/2003; Cass., Sez. 3, sentenza n. 27673/2008; Cass., Sez. 1, sentenza n. 9276/2014).
Tale indirizzo ha anche superato il vaglio della Corte Costituzionale, la quale – con ordinanza n. 4/2001 – ha ritenuto non sussistere una irragionevole disparità di trattamento tra il privato proprietario di un animale domestico o in cattività, che risponde dei danni da questo arrecati secondo il criterio di imputazione di cui all’art. 2052 c.c., e la pubblica amministrazione, nel cui patrimonio sono ricompresi gli animali selvatici. Ciò sull’assunto per cui, poiché questi ultimi soddisfano il godimento della intera collettività, i danni prodotti dagli stessi costituiscono un evento naturale di cui la comunità intera deve farsi carico, secondo il regime ordinario di imputazione della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.
Ultimamente, però, la Suprema Corte ha effettuato un cambio di rotta circa l’inquadramento normativo della fattispecie sostanziale.
La diatriba ha interessato, in particolare, i rapporti esistenti tra gli articoli 2043 e 2052 c.c.
Una pronuncia rilevante, in tal senso, è stata la n. 7969 del 20 aprile 2020, con la quale gli Ermellini hanno affermato che il criterio di imputazione della responsabilità per i danni cagionati dagli animali espresso nell’art. 2052 c.c. non risulta, in primo luogo, espressamente limitato agli animali domestici, ma fa riferimento esclusivamente a quelli suscettibili di proprietà o di utilizzazione da parte dell’uomo.
Inoltre, hanno precisato che esso prescinde dalla sussistenza di una situazione di effettiva custodia dell’animale da parte dell’uomo, per come si desume dallo stesso tenore letterale della disposizione là dove prevede espressamente che la responsabilità del proprietario o dell’utilizzatore sussiste sia che l’animale fosse sotto la sua custodia, sia che fosse smarrito o fuggito.
Si tratta, dunque, di un criterio di imputazione della responsabilità fondato non sulla “custodia”, ma sulla stessa proprietà dell’animale e/o comunque sulla sua utilizzazione da parte dell’uomo per trarne utilità, cioè sul criterio oggettivo di allocazione della responsabilità per cui dei danni causati dall’animale risponde il soggetto che dall’animale trae un beneficio, con l’unica salvezza del caso fortuito.
Cambiando il regime di imputazione della responsabilità, in applicazione del criterio oggettivo ex art. 2052 c.c., sarà dunque il danneggiato a dover allegare e dimostrare che il danno è stato causato dall’animale selvatico. Quest’ultimo, infatti, avrà l’onere di dimostrare la dinamica del sinistro nonché il nesso causale tra la condotta dell’animale e l’evento dannoso subito, oltre che l’appartenenza dell’animale stesso ad una delle specie oggetto della tutela di cui alla L. 157 del 1992 e/o comunque che si tratti di animale selvatico rientrante nel patrimonio indisponibile dello Stato.
È giusto chiarire in proposito che nel caso di danni derivanti da incidenti stradali tra veicoli ed animali selvatici non può ritenersi sufficiente la sola dimostrazione della presenza dell’animale sulla carreggiata e nemmeno che si sia verificato l’impatto tra l’animale ed il veicolo; il danneggiato, infatti, per ottenere l’integrale risarcimento del danno che allega di aver subito, dovrà anche allegare e dimostrare l’esatta dinamica del sinistro, dinamica dalla quale emerga che egli aveva adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida e che la condotta dell’animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui, nonostante ogni cautela, non sarebbe stato comunque possibile evitare l’impatto.
Quanto alla prova liberatoria, il cui onere grava sull’ente convenuto, essa deve consistere nella dimostrazione che il fatto sia avvenuto per “caso fortuito”. L’ente dovrà dimostrare che la condotta dell’animale si sia posta al di fuori della sua sfera di possibile controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile ed inevitabile del danno, e come tale sia stata dotata di efficacia causale esclusiva nella produzione dell’evento lesivo, cioè che si sia trattato di una condotta che non era ragionevolmente prevedibile o che comunque non era evitabile, anche mediante l’adozione delle più adeguate e diligenti misure di gestione e controllo della fauna concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto, purché, peraltro, sempre compatibili con la funzione di protezione dell’ambiente cui la stessa tutela della fauna è diretta.
Laddove, quindi, l’Ente dimostri che la condotta dell’animale, che sia stato dimostrato dall’attore essere la causa del danno, non era ragionevolmente prevedibile o comunque, anche se prevedibile, non sarebbe stata evitabile neanche ponendo in essere le più adeguate misure di gestione e controllo della fauna selvatica e di cautela per i terzi, comunque compatibili con la funzione di tutela dell’ambiente, andrà senz’altro esente da responsabilità.
Altro problema affrontato dai Supremi Giudici, sempre nella su citata pronuncia, connesso al precedente, ha riguardato l’individuazione del soggetto pubblico responsabile del danno.
L’indicata ricostruzione del regime di imputazione della responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici ha, infatti, inizialmente comportato l’individuazione dell’ente pubblico, eventualmente responsabile per la colposa omessa adozione delle misure necessarie ad impedirli, nella Regione, quale ente titolare della competenza a disciplinare, sul piano normativo e amministrativo, la tutela della fauna e la gestione sociale del territorio, anche nel caso in cui la Regione avesse delegato i suoi compiti alle Province e ciò poiché la delega non farebbe venir meno la titolarità di tali poteri e dovrebbe essere esercitata nell’ambito delle direttive dell’ente delegante.
A fronte di tale originario orientamento, si è poi affermato, con successive pronunce, che la responsabilità per i danni causati dagli animali selvatici non è sempre imputabile alla Regione ma deve in realtà essere imputata all’ente, sia esso Regione, Provincia, Ente Parco, Federazione o Associazione, ecc., a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, anche in attuazione della L. n. 157 del 1992, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, sia che i poteri di gestione derivino dalla legge, sia che trovino la fonte in una delega o concessione di altro ente.
In altri casi ancora, si è invece stabilito che la responsabilità extracontrattuale per danni provocati alla circolazione stradale da animali selvatici va imputata alla Provincia a cui appartiene la strada ove si è verificato il sinistro, in quanto ente cui sono stati concretamente affidati poteri di amministrazione e funzioni di cura e protezione degli animali selvatici nell’ambito di un determinato territorio, e non già alla Regione, cui invece spetta, ai sensi della L. 11 febbraio 1992, n. 157, salve eventuali disposizioni regionali di segno opposto, solo il potere normativo per la gestione e tutela di tutte le specie di fauna selvatica.
Il quadro degli orientamenti della Corte, dunque, non è stato, nel tempo, chiaro e univoco.
Per tale motivo, infatti, è stata ripetutamente segnalata la condizione di oggettiva ed estrema difficoltà pratica in cui, in base ai vari orientamenti, viene posto il soggetto privato – danneggiato dalla condotta di animali selvatici – nell’esercitare in giudizio la tutela dei suoi diritti, trovandosi questi costretto non solo a dover individuare e provare una specifica condotta colposa dell’ente convenuto, causativa del danno, ma anche a districarsi in un confuso sovrapporsi di competenze statali, regionali, provinciali e di enti vari che hanno causato una notevole incertezza dell’esito delle decisioni giudiziarie e che hanno presumibilmente contribuito ad alimentare il contenzioso in modo esponenziale.
Ad oggi, dunque, in virtù delle ultime pronunce, è finalmente pacifico che il soggetto pubblico tenuto a rispondere nei confronti dei privati danneggiati, salva la prova del caso fortuito, è la Regione, quale ente competente a gestire la fauna selvatica in funzione della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Con la precisazione, però, che laddove il danno si assuma essere stato causato dalla condotta negligente di un diverso ente, cui spettava il compito di porre in essere le misure adeguate di protezione nello specifico caso omesse e che avrebbero impedito il danno, la stessa Regione potrà rivalersi nei confronti di detto ente e, naturalmente, potrà anche, laddove lo ritenga opportuno, chiamarlo in causa nello stesso giudizio avanzato nei suoi confronti dal danneggiato, onde esercitare la rivalsa.
Ciò detto, pare quindi che siano ormai chiari i principi di diritto da seguire, così enunciati dalla Suprema Corte:“ai fini del risarcimento dei danni cagionati dagli animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della L. n. 157 del 1992, nel patrimonio indisponibile dello Stato, va applicato il criterio di imputazione della responsabilità di cui all’art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, in quanto ente al quale spetta in materia la funzione normativa, nonché le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte – per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari – da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni (e che dunque rappresenta l’ente che ‘si serve’, in senso pubblicistico, del patrimonio faunistico protetto), al fine di perseguire l’utilità collettiva di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema; la Regione potrà eventualmente rivalersi (anche chiamandoli in causa nel giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli altri enti ai quali sarebbe spettato di porre in essere in concreto le misure che avrebbero dovuto impedire il danno, in quanto a tanto delegati, ovvero trattandosi di competenze di loro diretta titolarità”.
Modificato: 21 Marzo 2023