27 Marzo 2023

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO: DISAMINA DI PRONUNCE RILEVANTI

Alla luce dell’importanza, dell’aumento esponenziale dei ricorsi e dell’inadempienza del nostro Stato alla copiosa giurisprudenza della Corte EDU, si segnalano, qui di seguito, tre recenti pronunce.
  1. Corte EDU, sez. I, sent. del 24 gennaio 2022 – ricorso n. 11791/20 – causa: SY c. Italia sui trattamenti inumani e degradanti; detenzione in carcere di un soggetto con disturbo bipolare della personalità in condizioni di precarietà e assenza di percorso terapeutico personalizzato.  

– Violazione degli artt. 3; 5 §1 a), 5 § 1 e), 5 § 5, 6 § 1, 13 e 34 Cedu –

Il ricorso in esame ha ad oggetto il mantenimento di un detenuto italiano affetto da bipolarismo in regime carcerario ordinario, in cattive condizioni e senza una strategia terapeutica complessiva di presa in carico della sua patologia, in contrasto con la sentenza del 20 maggio 2019 della Corte di Appello di Roma che aveva ordinato il suo ricovero in una residenza per le misure di sicurezza (“Rems”).

Il governo pone alla base della propria tesi difensiva l’assenza di posti nelle rems, la pericolosità del ricorrente constatata dalle giurisdizioni adite, nonché la natura, in ogni caso, privativa della libertà personale del ricovero nell’istituto di cura.

La Corte Edu, nel rammentare che l’art. 5 garantisce, insieme agli artt. 2, 3 e 4 Cedu, il diritto fondamentale alla libertà e sicurezza, quale diritto estremamente importante in una “società democratica”, evidenzia, altresì, la protezione che, tale disposizione, fornisce all’individuo contro qualsiasi privazione arbitraria o ingiustificata della libertà personale (vd. Selahattin Demirtaş c. Turchia (n. 2) [GC], n. 14305/17, § 311, 22 dicembre 2020, e Denis e Irvine c. Belgio [GC], nn. 62819/17 e 63921/17, § 123, 1° giugno 2021). Richiama, all’uopo, tre principi consolidatia) la stretta e rigorosa interpretazione delle eccezioni a siffatto principio (delle quali esiste un elenco esaustivo vd. commi a) – f) dell’art. 5 § 1); b) la regolarità sul piano sia procedurale che sostanziale della misura privativa della libertà (che deve, quindi, essere conforme alle predette eccezioni ed eseguirsi nei “modi previsti dalla legge” per la definizione dei quali la Convenzione rinvia alla legislazione nazionale dei singoli stati membri, che deve comunque soddisfare il criterio di “legalità”); c) la necessità della tempestività e celerità dei controlli giurisdizionali richiesti.

Più specificatamente, il detenuto affetto da bipolarismo, ovvero da patologia psichica, è individuato, nella giurisprudenza sovranazionale, con il termine di “alienato”, da concepirsi in senso autonomo, non prestandosi ad una definizione precisa, essendo il suo significato in continua evoluzione in funzione dei progressi scientifici della ricerca psichiatrica (vd. Denis e Irvine, sopra citata, § 134).

Ebbene, la Corte precisa che un individuo può essere considerato “alienato” solo se sussistono almeno tre condizioni: a) l’alienazione deve essere accertata in maniera probante (ovvero mediante rigorosa ed obiettiva perizia medica, di norma preliminare e, solo in alcuni casi “urgenti”, immediatamente dopo l’arresto) (vd. Varbanov c. Bulgaria, n. 31365/96, § 47, CEDU 2000 X, e Constancia c. Paesi Bassi, n. 73560/12, § 26 del 3 marzo 2015); b) il disturbo deve essere di natura o ampiezza tale da legittimare l’internamento (ovvero quando il soggetto abbisogna di terapia, farmaci o qualsivoglia trattamento clinico per guarire o affinchè il suo stato di salute migliori o necessita di sorveglianza per impedire di fare del male a sé stesso o agli altri) (vdibidem, § 133; Stanev, sopra citata, § 146); c) l’internamento non può protrarsi validamente se non persiste tale disturbo (si deve tenere conto di ogni eventuale evoluzione della salute mentale del detenuto successiva all’adozione dell’ordinanza che dispone la detenzione) (vd. Ilnseher, § 127; Rooman, § 192; Denis e Irvine, § 135).

La privazione della libertà, dunque, per il Giudice europeo, assolverebbe ad una duplice funzionesociale – di protezione e terapeutica legata all’interesse individuale. Sicchè la necessità di assicurare la prima, non dovrebbe, a priori, giustificare l’assenza di misure volte alla realizzazione della seconda.

In riferimento all’art. 5 § 1 e), quindi, una decisione che nega la rimessione in libertà di una persona internata, può divenire incompatibile con l’obiettivo iniziale di detenzione preventiva, contenuto nella decisione di condanna, se la persona interessata è privata della libertà in quanto rischia di essere recidiva ma, nel contempo, non beneficia di misure – come una terapia appropriata – necessarie per dimostrare che non è più pericolosa (ibidem, § 210).

La Corte chiarisce che, in linea di principio, “la detenzione” di un alienato può considerarsi “regolare” soltanto se attuata in un ospedale, in una clinica o in altro istituto appropriato (vd. Ilnseher, § 134; Rooman, § 190; Stanev, § 147). Osserva che la misura della detenzione in una rems ha lo scopo non solo di proteggere la società, ma anche di offrire all’interessato le cure necessarie per migliorare, per quanto possibile, il suo stato di salute e permettere in tal modo di attenuare o gestire la sua pericolosità (vd., mutatis mutandis, Klinkenbuß c. Germania, n. 53157/11, § 53 del 25 febbraio 2016; Rooman, § 208).

Rammenta che lo Stato è tenuto, nonostante i problemi logistici e finanziari, ad organizzare il proprio sistema penitenziario in modo da assicurare ai detenuti il rispetto della loro dignità umana e che il ritardo nell’ottenimento di un posto può reputarsi accettabile solo se debitamente giustificato e provato (vd. Muršić c. Croazia [GC], n. 7334/13, § 99 del 20 ottobre 2016; Neshkov e altri c. Bulgaria, n. 36925/10, § 229 del 27 gennaio 2015).

Ebbene, la Corte EDU, dopo aver rilevato l’incompatibilità con la carcerazione ordinaria, tanto dello stato di salute mentale del detenuto, quanto della necessità di un percorso terapeutico individuale e personalizzato, ritenendo, quindi, pienamente integrata la violazione dell’art. 3 Cedu, alla luce della suestesa ricostruzione, conclude con l’assunto che l’indisponibilità dei posti nelle rems non può considerarsi quale valida giustificazione per il mantenimento del ricorrente in ambiente penitenziario, ciò costituendo una palese violazione dell’art. 5 § 1 della Cedu.

Con riguardo, invece, all’idennizzo pecuniario spettante al ricorrente nei termini di danno morale, preliminarmente, precisa che la violazione di un qualsiasi articolo della convenzione, presuppone già di per sé, un danno morale alla persona lesa, come tale, i ricorsi nazionali devono rispettare siffatta presunzione e non subordinare l’indennizzo de quo all’accertamento di una colpa dell’autorità convenuta. La Corte osserva che l’azione civile di risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 2043 c.c. (nella quale il Governo vede un ricorso effettivo), esige che il ricorrente provi l’esistenza del fatto illecito, il dolo o la colpa dell’amministrazione e i danni subiti. Poiché il governo italiano non ha prodotto alcun esempio atto a dimostrare che tale azione sia stata intentata con successo in circostanze simili a quelle della presente causa, ne consegue che il ricorrente non disponesse, di fatto, di alcun mezzo per ottenere, con un grado sufficiente di certezza, riparazione delle violazioni dell’art. 5 § 1 della Convenzione, configurandosi, pertanto, anche sotto tale profilo, la violazione della citata disposizione.

La Corte di Strasburgo constata, infine, la violazione dell’art. 6 § 1 Cedu in materia di equo processo per mancata esecuzione della pronuncia del Giudice nazionalenonché dell’art. 34 Cedu, ritenendo che il ritardo nell’esecuzione della misura provvisoria (35 giorni) da parte del Governo italiano per conformarsi alle disposizioni ex reg. 39 Regolamento Cedu  (che consisteva nell’assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura che permettesse di garantire che la sua patologia psichica fosse adeguatamente presa in carico sul piano terapeutico), non può ritenersi ragionevole, essendo il confinamento, una situazione eccezionale.

  1. Corte EDU, sez. III, del 18 gennaio 2022 – ricorso n. 4161/13 – causa: Karuyev c. Russia sulla libertà di espressione; assenza di un fondamento normativo chiaro e prevedibile nella legge nazionale e insussistenza degli elementi costitutivi del reato.

– Violazione art. 10 Cedu –

Il ricorso in esame ha ad oggetto la violazione della libertà di espressione e di opposizione politica di cui all’art. 10 Cedu lamentata da Karuyev, cittadino russo, per l’arresto e la successiva condanna per violazione dell’ordine pubblico, lesione dell’onore della società e della dignità del presidente, per aver, nel corso di una manifestazione contro la presidenza di Vladimir Putin, sputato su un ritratto del presidente, esposto dai dimostranti, insieme ad una corona di garofani, a simboleggiare la tradizione russa di portare fiori ai defunti.

Ebbene, nel caso de quola Corte evidenzia come la condanna del ricorrente abbia costituito un’interferenza illegittima nella libertà di espressione, alla luce dell’assenza di prove circa la commissione del reato contestato.

Invero, la fattispecie contestata di cui all’art. 20 del codice penale russo, risulta integrata dall’utilizzo di un linguaggio osceno, dal ricorso alla violenza, dalla distruzione o dal danneggiamento di proprietà pubblica o privata. Contrariamente, la manifestazione de qua si era palesata quale esternazione assolutamente pacifica, come chiaramente dimostrato dall’arresto avvenuto ben quattro ore dopo l’evento.

Si rammenta che per consolidata giurisprudenza sovranazionale, la libertà di espressione, ai sensi dell’art. 10 § 1 Cedu, costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica, nonché condizione base per il progresso e l’autorealizzazione dell’individuo.

La protezione offerta dalla citata disposizione, infatti, non si limita alla parola o allo scritto, ma ricomprende qualsivoglia mezzo di espressione o condotta. Essa, inoltre, non tutela solo la sostanza delle idee e delle informazioni espresse, bensì la forma in cui sono trasmessi.

La Corte ritiene violato l’art. 10 Cedu in quanto, in assenza di un fondamento normativo chiaro e prevedibile, la condanna del ricorrente ha costituito una compressione illegittima della libertà di espressione.

*** Precedenti giurisprudenziali pertinenti: tra gli altri, vd. Partito popolare democratico cristiano c. Moldova (n.2), n. 25196/04, §§ 9 e 27 del 2 febbraio 2010; Tatár e Faber c. Ungheria, nn. 26005/08 e 26160/08 del 12 giugno 2012; Ibrahimov e Mammadov c. Azerbaigian, nn. 63571/16 e altri del 13 febbraio 2020; Shvydka c. Ucraina, n. 17888/12 del 30 ottobre 2014; Sinkova c. Ucraina, n. 39496/11 del 27 febbraio 2018; Poppa Taulats e Roura Capellera c. Spagna, nn. 51168/15 e 51186/15 del 13 marzo 2018; Mătăsaru c. Repubblica di Moldova, nn. 69714/16 e 71685/16 del 15 gennaio 2019.

  1. Corte EDU, sez. III, sent. del 18 gennaio 2022 –  ricorso n. 15508/15 – causa: Atristain Gorosabel c. Spagna sull’equità processuale; difesa tecnica; diritto a un difensore di fiducia; diritto a comunicare con il proprio difensore prima dell’interrogatorio di polizia.

– Violazione degli artt. 6 § 1, 3 e 3 cedu –

La fattispecie ha ad oggetto la vicenda di un cittadino spagnolo, arrestato e posto in detenzione cautelare in sede di indagine terroristica, al quale viene assegnato un difensore d’ufficio, senza la facoltà di nominarne uno di fiducia e senza la possibilità di incontrare il difensore d’ufficio prima dell’interrogatorio di polizia. In sede di interrogatorio, il ricorrente, rilascia dichiarazioni confessorie, sulla cui scorta, le autorità inquirenti conducono una perquisizione a seguito della quale viene rinvenuto materiale esplosivo. Il processo, nel corso del quale l’imputato è assistito da un difensore di propria fiducia, si conclude con una sentenza di condanna, confermata nei giudizi di impugnazione.

Innanzi alla Corte di Strasburgo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 6 commi 1 e 3 Cedu, per non aver potuto scegliere ab initio un difensore di fiducia e per essergli stata negata la facoltà di interloquire con il difensore d’ufficio prima dell’interrogatorio di polizia.

Ebbene il Giudice europeo rileva che non sussistono motivi pertinenti e sufficienti atti a fondare la limitazione del diritto di nomina di un difensore di propria fiducia, non essendo state valutate le circostanze particolari ed individuali, ma essendo, la decisione nazionale, fondata solo sulla scorta della tipologia di reato contestata (vd. § 58-60). Evidenzia, inoltre, l’assenza di ragioni impellenti che giustificano le restrizioni al diritto dell’accusato di comunicare con il difensore d’ufficio (vd. § 63).

La Corte, come ha già affermato in precedenti pronunce, conclude che il diritto enunciato nell’art. 6 § 3 Cedu rileva prima che una causa sia rinviata a giudizio se e nella misura in cui, l’equità del processo possa essere gravemente pregiudicata da un iniziale mancato rispetto di tale disposizione.

Tuttavia, pur dichiarando la violazione convenzionale degli artt. 6 § 1, 3 e 3, in ordine all’equità complessiva del procedimento, rimarca che non può ignorarsi il significativo impatto della confessione del ricorrente sullo sviluppo del procedimento penale a suo carico.

*** Precedenti giurisprudenziali pertinenti: tra gli altri, vd. Ibrahim e altri c. Regno Unito [GC], n. 50541/08 e altri 3, del 13 settembre 2016; Simeonovi c. Bulgaria [GC], n. 21980/04 del 12 maggio 2017; Dvorski c. Croazia [GC], n. 25703/11 del 2015; Beuze c. Belgio [GC], n. 71409/10 del 9 novembre 2018; Martin c. Estonia, n. 35985/09 del 30 Maggio 2013; Vitan c. Romania, n. 42084/02 del 25 marzo 2008; Klimentyev v. Russia, n. 46503/99 del 16 november 2006; Khodorkovskiy and Lebedev c. Russia, n. 11082/06 e 13772/05 del 25 luglio 2013; M. C. Olanda, n. 2156/10 del 25 luglio 2017.

*** Richiami normativi pertinenti: tra gli altri, vd. artt. 48 Carta dei diritti fondamentali; 52 § 3 Cedu; Direttiva 2013/48/UE del 22 ottobre 2013; 14 § 3 (b) Patto internazionale sui diritti civili e politici.

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Modificato: 27 Marzo 2023