27 Maggio 2022
Autore : Luana De Vito
“Nel caso di lavoro penitenziario lo stato di disoccupazione è equiparabile a quello che consegue alla perdita del lavoro libero”.
Lo ha deciso il Tribunale di Cosenza, Sez. lavoro e previdenza, con la Sentenza n. 397 del 9.3.2022, accogliendo il ricorso di un lavoratore detenuto all’interno di un istituto penitenziario con contratto di lavoro a tempo determinato, il quale chiedeva la condanna dell’I.N.P.S. alla corresponsione dell’indennità di disoccupazione prevista al termine del suddetto rapporto di lavoro.
L’istituto previdenziale, da parte sua, aveva rigettato il ricorso amministrativo proposto dal ricorrente ritenendo che il suddetto trattamento spettasse solo al termine di un rapporto di lavoro svolto alle dipendenze di aziende “diverse” dagli istituti penitenziari.
A sostegno della propria tesi l’I.N.P.S. deduceva, altresì, quanto stabilito dalla giurisprudenza di legittimità ovvero che “l’attività lavorativa svolta dal detenuto all’interno dell’istituto penitenziario…ha carattere del tutto peculiare per la sua precipua funzione rieducativa e di reinserimento sociale e per tale motivo prevede la predisposizione di graduatorie per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione ed avvicendamento che non possono essere assimilati a periodi di licenziamento che, in quanto tali, danno diritto all’indennità di disoccupazione” (Cass. pen. n. 18505/2006).
Orbene, seppure sull’argomento sussistano opposti orientamenti nella giurisprudenza di merito, la conclusione a cui è pervenuto il Tribunale cosentino trova conforto sia nella giurisprudenza della Corte costituzionale che nella Costituzione.
Nel risolvere la controversia posta alla sua attenzione, il Giudice del lavoro adito ha in primis esaminato la normativa che disciplina il trattamento in questione ovvero il D. Lgs. 4 marzo 2015 n. 22, al fine di verificare, in capo al ricorrente, la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge.
Ed invero, l’art. 2 del testo normativo indica, quali destinatari della “NASPI”, i “lavoratori dipendenti” e l’art. 3, nel delineare i requisiti, al comma 1, lett. a) ne assegna il riconoscimento “ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione”.
Il requisito dell’involontarietà dello stato di disoccupazione è inteso dalla giurisprudenza come riferito ai casi in cui il lavoratore dipendente perde il proprio lavoro per effetto di licenziamento o di scadenza del termine nel caso di rapporto temporaneo.
Il citato art. 3, al comma 2, prevede inoltre il riconoscimento della NASPI anche nei casi di dimissioni per giusta causa e di risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nelle ipotesi in cui, seppure la cessazione del rapporto sia immediatamente riconducibile (anche) ad una manifestazione di volontà del lavoratore, si ricollega comunque alla “sfera di iniziativa e di influenza del datore di lavoro”, o per un suo inadempimento grave nel primo caso, o per la presenza a monte di un provvedimento di recesso nel secondo.
Nel caso di specie, non solo è pacifica la sussistenza dei requisiti previsti dalla legge (compresi il possesso di almeno 13 settimane lavorate nei quattro anni precedenti la disoccupazione e di almeno 30 giornate di lavoro effettivo nei 12 mesi precedenti l’inizio della disoccupazione) ma per altro verso, non v’è prova (né la prova è stata offerta) che alla scadenza del contratto in esame, l’attività effettuata dal ricorrente sia terminata poiché affidata ad altro detenuto, in ragione dei criteri di rotazione e/o avvicendamento che disciplinano l’affidamento di attività lavorativa nei confronti dell’intera platea dei detenuti.
Successivamente si è proceduto alla disamina delle norme dell’Ordinamento penitenziario che disciplinano, appunto, il lavoro penitenziario al fine di analizzare se, ed in quale misura, la peculiarità del lavoro carcerario possa giustificare deroghe al trattamento previsto per il lavoro libero.
In particolare, l’art. 20, commi 2, 3, 5, 17, L. n. 354 del 1975 testualmente prevede:“Il lavoro penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato; il lavoro è obbligatorio per i condannati; l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera al fine di far acquisire ai soggetti una preparazione professionale adeguata alle normali condizioni lavorative per agevolarne il reinserimento sociale; la durata delle prestazioni lavorative non può superare i limiti stabiliti dalle leggi vigenti in materia di lavoro e sono garantiti il riposo festivo, il riposo annuale retribuito e la tutela assicurativa e previdenziale”.
È dunque di tutta evidenza che si tratta di affermazioni di principio volte ad assicurare al lavoro penitenziario un trattamento quanto più prossimo ed equiparato a quello previsto per il “lavoro libero”.
Ebbene, seppure la disamina delle norme suesposte convergano tutte in un’unica direzione, la decisione del Giudice è stata, altresì, corroborata dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale che, con la Sentenza n. 158 del 22.5.2001, nel riconoscere la peculiarità del rapporto di lavoro in ambiente carcerario e, dunque, una regolamentazione connotata da varianti e/o deroghe rispetto a quella del rapporto di lavoro in generale, afferma che “né tale specificità, né la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena, valgono ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato”.
Con tale pronuncia la Consulta ha dato continuità agli arresti giurisprudenziali (C. Cost., Sentenza n. 103/1984, Sentenza n. 1087/1988, Sentenza n. 26/1999) che, a partire dalla giurisdizione, hanno ribadito che “il lavoro penitenziario deve essere protetto alla stregua dei precetti costituzionali, giacché alla restrizione della libertà personale non consegue il disconoscimento delle posizioni soggettive, essendo il vigente ordinamento costituzionale basato sui diritti della persona”.
E poiché l’art. 38, co. 2, Cost. prevede che “i lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di…disoccupazione involontaria” e, come anzidetto, l’art. 20 dell’Ordinamento penitenziario, riconosce al lavoro carcerario, senza operare distinzione alcuna, “la tutela assicurativa e previdenziale secondo le leggi vigenti”, il Giudice ha ritenuto di dovere accogliere il ricorso e, conseguentemente, riconoscere al lavoratore detenuto, il trattamento di disoccupazione NASPI, nella misura e con decorrenza di legge.
Di seguito la Sentenza.
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Modificato: 21 Marzo 2023